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Lì, dove i bambini giocavano con le colombe ed ammiravano gli arcobaleni, ora ci sono solo macerie, sangue e cenere sulle mani. “Figli di Pu…tin” è il nuovo brano di denuncia sociale di MIICHME.




Un brano che possiede un potente significato simbolico, quello di MIICHME dal titolo “figli di Pu..tin”.

Quest’ultimo gioca con il doppio significato delle parole, come per dire figli di una generazione tossica che ama solo le ingiustizie e compiere atti di violenza, a discapito di persone innocenti che, purtroppo, non hanno potuto scegliere il loro destino.


L’immagine di copertina del brano arriva in maniera molto chiara e diretta: è un invito a non essere più sordi e muti di fronte a qualsiasi tipo di sopruso e terrorismo psicologico; un’esortazione a bloccare l’indifferenza sociale e guardare oltre il muro che abbiamo creato a causa di essa.

Le macerie rappresentano ciò che rimane dei conflitti, ma può essere anche un simbolo di rinascita, dopo il crollo.

Una nuova vita potrebbe esserci se riuscissimo ad accogliere le culture diverse da noi, apprendendone ed assimilandone gli usi e costumi che possono arricchire le nostre prospettive.


- Perché il nome MIICHME?

Nasce dall’affetto e sfocia in un delirio di onnipotenza.Mia moglie mi ha sempre chiamato “Mich” in modo affettuoso, e quando ho dovuto scegliere un nuovo pseudonimo che sostituisse il precedente, ho scelto proprio questo.Il delirio di onnipotenza sta nel modificarlo in modo che, scomposto, diventi tre modi per affermare me stesso: mi – ich – me.Solo l’A&R della mia vecchia etichetta discografica aveva colto davvero il senso.Ultima precisazione: il “ch” si pronuncia come una “c dolce”.

 

- Ho notato che hai pochissime foto artistiche. C’é una ragione in particolare?

Qualcuno pensa che sia solo un’operazione di marketing, ma non è così.Non sono un artista anonimo: semplicemente, la mia storia artistica è stata complessa e mi ha portato a fare questa scelta.Una scelta nata dal rispetto per chi ha condiviso con me l’inizio di questa avventura.

 

- Di dove sei e come la tua città ti ha influenzato artisticamente?

Sono di Roma, e Roma è una città che ti insegna il contrasto: bellezza e caos, storia e degrado, poesia e rabbia. Tutto questo finisce nella mia musica, nelle parole che scelgo, nel suono che cerco. Roma è un teatro a cielo aperto, ogni quartiere ha una voce, una storia, un'energia che ti entra sottopelle.

 

- Raccontaci il tuo percorso musicale dalle origini fino ad oggi.

Ho iniziato circa vent’anni fa, e all’inizio tutto sembrava andare per il meglio.Con me c’era Mirko, un fratello vero. Lui produceva i beat, io mi occupavo solo dei testi e delle performance.Insieme avevamo fondato un Lab, uno spazio aperto ai ragazzi delle periferie, dove ognuno poteva coltivare il proprio talento artistico, qualunque fosse la forma.Persino Gillo Dorfles si interessò al progetto: fu il primo ospite dei nostri eventi.Poi, un giorno, tutto è cambiato. Per un motivo banale, rifiutai di andare a una serata. Quella notte Mirko perse la vita in un incidente d’auto.Ero sempre io a guidare in quelle occasioni, e non mi sono mai perdonato per non esserci stato.Quella tragedia mi ha allontanato dalle scene per anni.Sono riuscito a tornare solo grazie alla forza di mia moglie. Non la ringrazierò mai abbastanza.

 

- Quando hai capito che fare l’artista era la tua strada? C’è stato un evento in particolare che te lo ha fatto comprendere?

Sì, c’è stato un momento preciso.Ero in uno dei primi karaoke a Roma, una cosa piuttosto improvvisata. Rappavo su “Domani” degli Articolo 31.Fu lì che conobbi Mirko.È da quel momento che tutto è iniziato — anche se, poco dopo, la vita ha messo tutto in pausa, come in ibernazione.

 

- Raccontaci l’iter del processo creativo che segui per la creazione di un brano e da cosa ti lasci ispirare?

Dipende. A volte tutto nasce da una frase appuntata al volo, altre volte da un’idea di beat che mi accende qualcosa dentro.Di solito parto da un’emozione forte: rabbia, nostalgia, fastidio.Scrivo tanto, poi taglio, limpo, cerco la musicalità.Mi ispiro a ciò che vivo: la strada, i rapporti, le contraddizioni... ma anche ai dettagli minimi, quelli che per altri sono invisibili, e per me diventano rime.Mi piace sempre aggiungere un tocco di cultura, un riferimento sottile. Qualcosa che costringa chi ascolta ad approfondire, ad andare oltre la superficie.

 

- Parlaci del brano “Figli di Pu…tin”, di cosa parla e come hai trovato l’ispirazione per scriverlo?

È un inno alla pace. Nessuno dovrebbe mai vedere l’immagine di un bambino coinvolto in uno scenario di guerra.È stato proprio questo pensiero a spingermi a scrivere il pezzo.Sono partito dal beat e dalla melodia principale. Poi il testo è venuto fuori quasi di getto.Ogni barra è uscita in pochi secondi, come se fosse già scritta da qualche parte dentro di me.Il ritornello, per dirti, l’ho scritto la sera prima di entrare in studio. Tutto è nato in modo istintivo, ma con un’urgenza reale.

 

 

 

- Descrivici il significato della copertina del brano, ci sono diversi elementi simbolici come la colomba, l’arcobaleno, i bambini ed i tre uomini in primo piano. Spiegaci che cosa rappresentano.

Mi sembra piuttosto esplicita, non credo servano troppe spiegazioni.Nei contesti di guerra, a pagare il prezzo più alto sono sempre i bambini.Nella mia testa li vedevo intorno a chi potrebbe fare qualcosa, ma sceglie di agire troppo tardi — o non agisce affatto.Quelle figure le ho immaginate così: con le mani insanguinate. Un'immagine cruda, ma necessaria.

 

- Come spiegheresti la frase: silence = complicity?

A mio avviso, non si può restare in silenzio di fronte a queste atrocità globali.Bisogna alzare la voce, sempre.Esistono modi e tempi giusti, leciti e rispettosi, per far valere le proprie ragioni e contribuire a fermare queste barbarie.L’indifferenza è complicità.

 

- Come si struttura una tua performance dal vivo?

Nella vita, come sul palco, ho sempre avuto un approccio istintivo.Per questo, ogni mia performance parte da una scaletta che poi spesso non rispetto.Mi lascio guidare dall’energia del momento, soprattutto da quella del pubblico.Cerco sempre di coinvolgere tutti il più possibile, perché sono convinto che la parte migliore dello spettacolo siano proprio loro.

 

- Raccontaci una tua giornata tipo.Ho una routine abbastanza rigida, ma la musica è sempre presente nelle mie giornate.Anche quando non sto producendo, il sottofondo — anche solo mentale — è sempre quello.Ascolto, ascolto, ascolto.Cerco di restare con i piedi per terra: famiglia, amici, vita quotidiana a 360 gradi. È lì che trovo equilibrio e, spesso, anche ispirazione.

 

 

 

- C’è qualche artista del passato da cui hai preso ispirazione?

Sì, molti. A partire dagli N.W.A., che sono stati tra i primi a usare il rap come una vera forma di denuncia sociale, senza filtri.Con loro ho capito che il microfono può diventare un’arma, e che raccontare la verità — anche quella più scomoda — ha un potere enorme.Poi Tupac, che riusciva a essere politico, emotivo e street allo stesso tempo. Nas, per la scrittura: sembrava scrivesse romanzi in rima.E ovviamente anche i pionieri del rap italiano: Frankie hi-nrg, Sangue Misto, Assalti Frontali, Articolo 31, artisti che hanno aperto la strada e dimostrato che anche in Italia si poteva fare rap con identità e contenuto.

 

- Come curi il look artistico?

Non lo curo, semplicissimo. Mia moglie dice che mi copro, non mi vesto.

 

- Se potessi rinascere in quale periodo musicale sceglieresti di vivere?

Anni ’90, senza dubbio. L’epoca d’oro dell’Hip-Hop, quando le rime contavano più dei numeri.I rapper erano le voci del quartiere, cronisti con flow.C’era urgenza, verità, fame. Ogni pezzo suonava come una dichiarazione d’identità.Mi sarebbe piaciuto viverla davvero, fino in fondo. Anche solo per respirare quell’energia.Purtroppo ero troppo piccolo, ma l’ho assorbita lo stesso e oggi la porto dentro ogni barra.

 

- Come gestisci l’ansia da prestazione prima di una performance?

Sono sempre stato piuttosto egocentrico, più o meno dai dieci anni in su.Prima ero timidissimo, ma poi c’è stato un cambio radicale.Per questo non ho mai sofferto davvero l’ansia da prestazione.L’emozione c’è sempre, ed è tanta — ma non diventa mai così forte da bloccarmi. Anzi, spesso mi dà la spinta giusta per dare il massimo.

 

 

 

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